Una persona per volta, una solitudine per volta. Si entra nello spazio, vuoto, pieno solo di una grande finestra che dà sull’orizzonte urbano, piatto, lontano. Al centro della stanza c’è una panchina verde, rivolta verso l’esterno. Sulla panchina sta un libro bianco sulla cui copertina un messaggio che invita a sedersi, indossare le cuffie e avviare un iPod che si trova lì accanto.
Play. Parte un rumore, un respiro, avanza. E’ un brano musicale con diversi movimenti che accompagna e conduce un testo presentato come un dialogo intimo tra due persone che via via si rivela essere dialogo tra la persona che parla e l’ascoltatore.
Il brano termina con un invito ad uscire dalla stanza dalla porta dietro di sé, chiedendo anche di chiuderla alle proprie spalle.
Si entra nello spazio attiguo, ancora più vuoto del primo. Questa volta al centro sta un’asta con microfono che invita ad avvicinarsi e ad indossare delle cuffie, lì appese. Si sente ancora una voce, la stessa voce. E’ viva. Chiama per nome chi si è avvicinato, come se lo avesse già incontrato. Pone una domanda: “cosa ti spaventa di più?”. Inizia un dialogo imprevedibile tra due voci invisibili ma vicinissime. Pochi minuti di contatto, un saluto e l’invito ad uscire.
Per tutto il tempo, l’attrice resta in ascolto, nascosta in uno spazio non visibile dal pubblico, con cuffie, microfono e computer per avviare la registrazione delle risposte date dal pubblico.
Periodicamente (ogni mezz’ora circa) l’audio registrato dall’attrice viene riversato su una nuova traccia musicale preimpostata, generando un brano di musica in cui entrano le voci del pubblico, con le loro riposte alla domanda posta dalla voce nella stanza, risa, frammenti, rumori, esitazioni, imbarazzi, parole, silenzi. Tutto quello che la domanda porta viene mescolato a una nuova musica.
All’uscita, poco prima di allontanarsi del tutto, ognuno sentirà l’eco delle proprie paure e di quelle di tutti gli altri. Resta il senso di intimità, che si dà nella collettività.