Passai quelle prime settimane in attesa, in uno spazio immateriale, dilatato, osservando che in quel limbo d’incertezza generale – non si poteva avere idea di come avrebbe potuto evolversi la situazione – fin dai primissimi giorni molti eventi venivano traslati in incontri online e i film mandati in streaming; in molti casi si trattava di una scelta inevitabile e obbligata che, cionondimeno, faceva da contraltare a uno stato di vuoto. Appena un paio di mesi prima avevo partecipato a una delle esperienze più intense della mia vita. Mi era stato proposto di portare in giro il film, con me presente, nelle regioni in cui era stato girato, in Ucraina Occidentale. Per tre settimane, con Andriy, mio interprete e aiuto regia durante le riprese, viaggiammo di città in villaggio fino a raggiungere i più piccoli e remoti insediamenti. Le proiezioni avvenivano in luoghi diversi a seconda delle possibilità delle singole comunità come cinema, sale comunali, aule universitarie, biblioteche, scuole e a ognuna seguivano lunghi dibattiti. La questione ultima per chi partecipava alla proiezione, come del resto anche per me, riguardava le ragioni stesse del filmare, l’essenza di un’azione che consiste nel tradurre porzioni di vita all’interno di un altro linguaggio, rendendole immagini effimere, legate da una precisa correlazione temporale. Furono incontri incredibilmente diretti che restituivano in modo del tutto inaspettato la complessità di un lavoro durato quasi sei anni.
Da queste riflessioni, di fronte all’impossibilità, nuova, di una precisa relazione con un pubblico, è nata l’idea di ribaltare il processo di fruizione legato all’esistenza stessa del film e di portarlo alle sue estreme conseguenze: se avvenissero delle proiezioni in spazi non strettamente adibiti, privi di uno schermo adeguato o di una corretta calibrazione dell’impianto sonoro, al punto da generare inquadrature deformate e suoni alterati? Se si sfidassero le condizioni prime, necessarie alla visione, proiettando in luoghi non oscurati e rumorosi? Se, infine, immagini e suoni potessero abitare i luoghi, a prescindere dalla presenza di un pubblico o meno, cosa ne decreterebbe, in ultimo, l’esistenza?
Come case, edifici, intere città abbandonate dall’uomo vengono nuovamente colonizzate da piante e animali selvatici, così, a un film privo di chi lo osservi accade di perdersi negli spazi, fondersi con essi e lentamente scomparire.
Atti Clandestini per Terre Mobili è un gesto performativo svoltosi all’interno di un percorso atipico, che simbolicamente collega le città di appartenenza dei due festival, rispettivamente Modena e Piacenza. Tra la seconda metà di ottobre e i primi giorni di novembre, quando nuovamente incombeva la ricaduta in uno stato di lockdown, ho proiettato, rifilmando e rifotografando alcuni frammenti del film in luoghi diversi tra loro, ma simbolicamente rilevanti per il territorio. Suoni e immagini si sono riappropriati di una matericità via via diversa, a seconda delle caratteristiche degli spazi coinvolti, tessendo con questi ultimi una fitta rete di correlazioni e aprendo la struttura narrativa chiusa del film a nuove, imprevedibili, stratificazioni di senso. Un breve testo che ripercorre quei giorni, accompagna la documentazione di ognuno dei nove atti.
Settimanalmente, i frammenti video verranno pubblicati su questo sito, e, in contemporanea, i testi via via relativi ad ognuno degli Atti appariranno sul sito di Sette giorni per paesaggi.
ATTO II / qui il diario di viaggio ⇥ in prossimità della Rocca d’Olgisio, Pianello Val Tidone
ATTO III / qui il diario di viaggio ⇥ Brallo di Pregora, Frazione Bralello
ATTO IV / qui il diario di viaggio ⇥ Fabbrica SEA / Modena
ATTO V / qui il diario di viaggio ⇥ Diga di Mignano / Piacenza
ATTO VI / qui il diario di viaggio ⇥ Chiesetta di S. Medardo, Peli di Coli
ATTO VII / qui il diario di viaggio ⇥ Teatro Sociale Gualtieri, Gualtieri (RE)
ATTO VIII / qui il diario di viaggio ⇥ Chiesetta di S. Andrea, Castelletto
ATTO IX / qui il diario di viaggio ⇥ Chiostri di S. Pietro, Fondazione Palazzo Magnani, Reggio Emilia